Tragedia sul lavoro, il sopravvissuto: impossibile salvarli. "Quei corpi, un’ossessione"
Giampietro Costantino, "sofferenza indicibile" e "amore per la vita"
Pubblicato il
18 gennaio 2018 su IL GIORNO
Milano, 18 gennaio 2018 - Ha trascorso la notte più lunga
della sua vita dentro il pronto soccorso dell’ex casa di cura Santa
Rita di Milano con gli occhi sbarrati. Per ore Giampiero Costantino, 34 anni di Paderno Dugnano, uno dei due operai rimasti intossicati nel terribile incidente dello stabilimento Lamina, non ha visto il soffitto della Sala Rossa, ma l’immagine dei suoi colleghi immobili in
fondo alla fossa maledetta: il responsabile di produzione Arrigo
Barbieri, 58 anni, con l’elettricista Marco Santamaria di 43 anni che
non ce l’hanno fatta. Con loro c’era Giancarlo Barbieri, 62 anni, che è
ancora grave. «Ho pensato a quella scena ossessivamente», dice, nella
sala d’attesa dell’Istituto Clinico Città Studi, dove cinque suoi
colleghi sono venuti a trovarlo ieri mattina. Il chiodo nel cuore è
arrivato in profondità quando ha saputo che è scomparso anche Giuseppe
Setzu, il 49enne morto come un eroe nel tentativo di soccorrere gli
altri: «Il mio tormento lo può capire chi ha perso un amico in modo
tragico».
Dov’era al momento dell’incidente?
«Nello stesso reparto dove sono presenti i forni, ma più distante. Ho
sentito gridare “Aiuto! Aiuto!” e ho visto il direttore Giancarlo
Barbieri che correva verso i forni. Come d’istinto, l’ho seguito. Mi
sono sporto sul forno e ho visto il caporeparto con l’elettricista sul
fondo già privi di coscienza. Il direttore non ci ha pensato due volte a
soccorrere il fratello Arrigo, ma dopo due scalini ha accusato un
malore ed è caduto. Sono sceso dalla scalinata per afferrarlo ma subito
ha cominciato a girarmi la testa. Sono risalito e con il mio collega
Alfonso (Giocondo, l’altro operaio intossicato ma non in pericolo di
vita, ricoverato anche lui in Città Studi) abbiamo indossato la
mascherina prima di calarci. Inutile, stavamo male. Lui è risalito per
primo, io ho dovuto seguirlo dopo aver cercato di resistere. Ho perso i
sensi arrivato in superficie. Mi sono ripreso con l’ossigeno in
autoambulanza».
La sicurezza conta alla Lamina?
«Sì. La conosco bene: ci ho lavorato dal 2004 al 2007 e sono lì in
pianta stabile da 3 anni. L’ingegnere aveva investito tantissimo per la
nostra incolumità. Non era mai successo neppure un episodio lieve che
facesse presagire la sciagura. Le scarpe antinfortunistiche e il
caschetto li dovevamo indossare persino nel cortile. Ritenevo
impossibile farsi male lì dentro».
Che ricordo ha di chi non c’è più?
«Arrigo era il nostro caporeparto: sapeva fare il suo lavoro ma era
anche molto affabile. Marco scambiava volentieri battute. Con Giuseppe
lavoravo assieme per otto ore, fianco a fianco lungo la macchina che
taglia i nastri in acciaio. Era un amico con cui andavo anche a mangiare
fuori. Sempre disponibile a dare una mano a chi aveva bisogno: il suo
gesto eroico non mi stupisce. Non l’ho visto in azione: ero svenuto».
Pensa di poter guarire dal dolore?
«Ci vorrà tanto tempo. Vivo al momento sentimenti contrastanti: da un
lato una sofferenza indicibile. Dall’altro la consapevolezza di essere
stato fortunato, di aver scampato la morte per un soffio. In queste ore
mi è passata l’esistenza davanti».
E cosa ha pensato?
«Di averla data per scontata. Basta un attimo per perdere tutto.
Sdraiarsi su un prato o mangiare un panino avrà d’ora in poi un
significato diverso. Non ho mai amato così tanto la mia vita».